la verità mi manca

I genitori di Yara Gambirasio sembrano due brave persone. Avrebbero tutto il diritto di conoscere la verità sulla morte della loro figlia.

Anche Marisa Gentile e i suoi figli avrebbero tutto il diritto di sapere la verità sulle sorti di Davide Cervia.

E Pietro Orlandi? Se anche non fosse la brava persona che sembra, in quanto persona, non avrebbe diritto di sapere che fine ha fatto la sorella?

E i familiari delle vittime del DC 9 abbattuto nei cieli di Ustica e i familiari di quelli che hanno perso la vita perché “in qualche modo” immischiati in quella vicenda, non avrebbero diritto di sapere perché e chi e quale catena di eventi ha permesso un’azione di guerra  in tempo di pace ?

E i familiari delle vittime della Moby Prince? Anche quelle…brave persone.

E so che ce ne sono tanti altri, feriti e insultati dalla mancanza di verità, dal fatto che chi sa tace. Dalla mafia, dalla ‘ndrangheta un po’ te lo aspetti. Ma quando è lo Stato a bistrattarti…è una cosa che non si digerisce.

Il diritto alla verità è un diritto che deve essere costituzionalmente tutelato. Chi lo ha detto ha detto una cosa sacra, perché la verità è un atto di responsabilità e forse, questi cretinetti servi del potere e vigliacchi che si susseguono ai governi riempendosi la bocca di parole come libertà e democrazia, non hanno capito che non c’è libertà senza responsabilità.

La verità è la verità, la dica Agamennone o il suo porcaro”

Per dire che la verità ha un valore assoluto, che trascende il potere. Ma questo lo pensavano i greci, che pure di peripezie democratiche ne hanno avute. Loro però conoscevano bene la teoria e potevano dire quando la pratica vi si allontanava. Noi invece, per giustificare pratiche criminali, siamo disposti a inventare teorie altrettanto devianti. Ci siamo inventati addirittura che esistono due verità, una giuridica e una storica, e a fare questo a dire il vero è quel gran genio che ha condannato Enzo Tortora e che comunque ha fatto carriera anzicché essere buttato fuori dalla magistratura a calci. Democrazia senza responsabilità.

Da esportare anche.

Quindi, per mettere una toppa al gran pasticcio che si era fatto con Tortora ci si inventa queste due verità che vengono prontamente assimilate dal sistema, come l’accento sulla seconda i in circuìto dei novelli cronisti di F1. Due verità sono meglio di Una. E perché non tre ,  o quattro?  Sempre meglio di nessuna….

Ma se c’è una cosa che chi chi governa ha imparato molto bene è barare. Senza nessun senso di responsabilità e senza vergogna.

 

genitori di yara

Leviathan, un casus belli nel levante mediterraneo. Libano e Israele si contendono le sue ricchezze

Se Israele dovesse diventare il nuovo sovventore energetico dell’Europa, è verosimile credere che in futuro alcuni dei 27 dell’Unione saranno fortemente condizionati in merito al sostegno della causa palestinese. Pensiamo all’Italia, che per 42 anni ha segretamente sostenuto il regime di Gheddafi in Libia prima di rassegnarsi alla sua (ormai certa) disfatta, o che non ha mai preso posizione riguardo ai 19 giornalisti assassinati in Russia negli ultimi dieci anni. La sicurezza energetica del nostro Paese ha suggerito ai vari governi di mettere da parte le questioni umanitarie, e c’è da credere che se il gasdotto Leviathan-Europa sarà realizzato, ben presto anche la questione palestinese passerà in cavalleria.

viaLeviathan, un casus belli nel levante mediterraneo. Libano e Israele si contendono le sue ricchezze.

Lo Tzabar (Sabra) e il Sabbar (Fico d’india): riflessione su Memoria e Nostalgia di Gilad Atzmon

Lo Tzabar (Sabra) e il Sabbar (Fico d’india): riflessione su Memoria e Nostalgia

 

iuan kalvellido

la memoria della terra
juan kalvellido

 

 

AUTORE: Gilad ATZMON
Tradotto da Diego Traversa

La memoria della terra, da Juan Kalvellido
Il Sionismo è una vera rovina. E’ una filosofia colonialista, espansionista, nazionalistica fondata sullo sciovinismo razzista. Coloro che si sono attenuti e si attengono alla lettera ai suoi principi hanno rubato, in nome del popolo ebraico, la terra all’indigeno popolo Palestinese. Molti di noi lo considerano una grande minaccia alla pace mondiale. Le sue devote lobby sparse nel mondo esigono sempre più spargimenti di sangue in nome del “liberalismo”, della “democrazia”, della “libertà” e perfino in nome dell’alleanza Giudeo-Cristiana. Tuttavia il Sionismo, ebbene sì, è riuscito fare qualcosa che nemmeno a Dio è riuscito: ha unito gli Ebrei. Il Sionismo è diventato il simbolo dell’identità ebraica.

In uno dei miei recenti scritti, The Politics Of Anti-Semitism (La politica dell’Anti-Semitismo), ho analizzato il ruolo del Sionismo quale segno distintivo dell’Ebreo diasporico contemporaneo. Ho sostenuto che il Sionismo è riuscito ad avere la meglio sulle sue ideologie rivali offrendo tutta una serie strutturale, collettiva e trasparente di identificatori simbolici. Più che l’ideologia e la politica, sono stati i feticci sionisti e gli orpelli ebraici a rendere il Sionismo una storia di successo.

Di conseguenza, il Sionismo ha fondato una lingua (l’ebraico), ha fornito l’ebreo di una concreta dimensione geografica (Eretz Israel), ha trasmesso l’immagine di una cultura (il nuovo folklore ebraico) ed è riuscito persino a presentare una falsa immagine di una polarizzazione politica ed etica (sinistra e destra). Se i fondatori del Sionismo tentarono di salvare l’ebreo diasporico dalla sua condizione anomala, ebbene dobbiamo ammettere che allora il Sionismo è riuscito nei suoi intenti e ha adempiuto alla sua missione. Il successo del Sionismo non ha nulla a che vedere con l’ideologia, la politica o le sue pratiche devastanti. Ovviamente, non sono molti gli ebrei che comprendono che cosa rappresenti il Sionismo (ideologicamente, politicamente, eticamente e praticamente). Non sono molti gli ebrei diasporici che cedono apertamente alla scuola di pensiero sionista e alla sua prassi amorale. Al contrario, essi aderiscono al “folklore israeliano”, alla bizzarra parola ebraica, al falafel e all’humus che erroneamente identificano con Israele (piuttosto che con la Palestina). Cantano al ritmo di musica israeliana, che si tratti di Hava Nagila, Yafa Yarkoni o Yeuda Poliker. Per quelli che non comprendono, la “cultura israeliana” è un diretto prodotto del progetto sionista. Ovviamente, la cultura ebraica moderna è riuscita a depredare il mondo del simbolismo ebraico. Il Sionismo ha fondato una nuova forma di affiliazione tribale ebraica.

Tuttavia, per quanto il Sionismo trasmetta una storia di successo culturale all’interno della questione dell’ebreo diasporico, esso risulta piuttosto privo di significato per quel che riguarda gli israeliani. Lo Tzabar, il Sabra, l’ebreo nato in Israele, non ha assolutamente alcun beneficio dal fatto che il Sionismo sia una serie strutturale di simboli d’identificazione. In realtà, il Sabra non ha bisogno di identificarsi con alcuna struttura simbolica fondata sull’aspirazione geografica. Nasce in un marchio autarchico, cioè l’israelianità. Allo stesso modo, i Sabra non hanno bisogno della lingua ebraica come mezzo d’identificazione, essi la usano come strumento di comunicazione. Né i Sabra hanno bisogno di un orientamento geografico, sono già orientati dalla nascita. Il Sabra non aderisce nemmeno al folklore israeliano, in realtà la maggior parte degli israeliani non lo sopporta, preferendogli di gran lunga il pop estero, il rock, la musica turca e greca e perfino un po’ di jazz libero e selvaggio.

Per quanto possa sembrare strano, ciò che viene preso dall’ebreo diasporico come un idenficatore simbolico, cioè il feticcio ebraico, ha pochissimo significato per gli israeliani. Dello stesso segno, per quanto l’ebreo diasporico aderisce all’ “israelianità”, quella stessa “Israelianità” significa poco o niente per gli israeliani.

Questo fatto non dovrebbe stupirci poi molto: la nozione di “americanismo” ha molto più significato per i non-americani che non per gli americani stessi. Allo stesso modo, la tendenza a lasciar cadere distrattamente un’eccentrica parola francese, abitudine che è a quanto pare piuttosto frequente tra gli pseudo-intellettuali anglo-sassoni, è il riflesso di un’analoga fissazione. La “francesità” conferisce un significato molto speciale soltanto a coloro che sanno molto poco della Francia. Tuttavia, non un singolo francese ritiene che parlare francese equivalga a fare qualcosa di sbalorditivamente abile. Parimenti, l’ebreo della Diaspora può usare la stravagante parola ebraica per attestare la sua appartenenza tribale, fatto sta che ci vorrebbe ben altro di una mera parola ebraica perchè gli israeliani possano sentirsi a casa in una terra rubata, cioè la Palestina.

Memoria e Nostalgia

“Sono un essere umano, sono ebreo ed israeliano. Il Sionismo è stato uno strumento per il mio passaggio dalla condizione di un’esistenza ebraica ad una israeliana. Credo che fosse Ben-Gurion a dire che il movimento sionista era l’impalcatura per costruire la casa e che, dopo la fondazione dello stato, questa impalcatura dovesse essere smantellata.”
Intervista di Ari Shavit ad Avrum Burg: “Abbandonare il Ghetto Sionista”, Haaretz.

Cosa rimane al Sabra con cui identificarsi? Non molto, a quanto pare: la terra su cui vive appartiene a qualche altra gente e ne è consapevole. Il cibo che lo fa sentire a casa propria (humus e falafel) è stato depredato da quella stessa altra gente, cioè i palestinesi. La lingua che utilizza quando si sente emotivamente commosso (o molto felice o molto arrabbiato) è l’ arabico ed è stato preso in prestito di nuovo da—indovinate un po’ ?—da quella stessa “altra gente”, i Palestinesi. La casa in cui vive fu costruita da quell’altro popolo…penso che sappiate a chi mi riferisca, sì, proprio loro, i palestinesi.

E’ alquanto lampante che il fulcro della realtà culturale ebraica, la lingua, il cibo, il cielo, il mare, il deserto, la primavera e l’autunno, le colline e le valli, gli olivi…… appartengono tutti alla terra (la Palestina) piuttosto che allo Stato del crescente apartheid che ne ha momentaneamente preso possesso (Israele).

Cosa potrebbero fare gli israeliani per fuggire dalla loro frammentaria e posticcia realtà nella quale qualsiasi cosa che essi possono considerare come “casa” in realtà appartiene a quell’ “altra gente” ?

Coloro che visitano Israele apprendono la risposta subito dopo il loro atterraggio a Tel Aviv: cosmopolitismo e fascino liberale occidentale è la risposta israeliana. Gli israeliani affrontano la loro vana bramosia di autenticità moltiplicando i sintomi del loro inerente distacco.

I turisti che per la prima volta visitano Tel Aviv a volte rimangono attoniti dalla svariata scelta culturale che la città offre. Tel Aviv è davvero una delle città più “aperte” del mondo. Lì potete trovare qualsiasi marchio di moda occidentale e qualsiasi catena alimentare americana. Qualunque rock star include Israele nel proprio tour mondiale. In alcuni dei maggiori ristoranti di Tel Aviv potete farvi un sushi come primo, goulash ungherese come secondo, una bistecca francese come piatto principale e baklava per dessert. Ho appreso di recente che Tel Aviv non è solo un’ “attrazione del sesso” ma anche la prossima capitale mondiale dell’omosessualità ( gay capital of the world ). E’ veramente incoraggiante sapere che tra un humus e un falafel il Sabra può farsi un sashimi e indulgere a qualche ultra-moderna attività socio-erotica secondo i propri gusti personali. Questa potrebbe benissimo essere la suprema forma di libertà che lo “stato per soli ebrei” può offrire: cosmopolitismo imbevuto in un qualche moderno liberalismo libidinoso occidentale.

Tuttavia, Israele, la libidinosa, liberale e “unica democrazia del Medio Oriente”, è impegnato anche in pratiche ben diverse e sinistre. Nonostante gli israeliani rappresentino la suprema manifestazione dell’apertura mentale occidentale e nonostante la loro “culinaria larghezza di vedute”, essi stanno anche facendo morire di fame milioni di esseri umani, cioè il popolo palestinese. Nonostante il fatto che gli israeliani si siano prodigati nel trasformare Tel Aviv, la loro capitale culturale, in una “città senza confini”, oggi Gaza è un confine senza città. E’ un enorme campo di concentramento, controllato per mezzo di ripetuti coprifuoco e fatto a pezzi dal costante fuoco di fila dell’artiglieria e dai raid militari. Israele ha trasformato le città palestinesi in vaste prigioni urbane circondate dal filo spinato, torrette e sentinelle.

Non rimane che chiedersi: come è stato possibile che quella stessa gente imbevuta di “cosmopolitismo”, “multiculturalismo” e ideologia liberale occidentale adotti un comportamento tanto scellerato nei confronti della popolazione indigena di quella terra?
Come si potrebbe adattare l’esclusiva inclinazione alla segregazione, che si riflette nel gigantesco muro dell’apartheid, con la propria immagine liberale infarcita di “culinaria larghezza di vedute” ? Come si può far collimare le subdole tattiche usate contro i palestinesi con la poetica immagine che gli israeliani hanno di sé stessi, quella di essere un’illuminata nazione umanista? Come si può far concordare la figura dell’ “israeliano in cerca di pace” con “i muri di sicurezza”?

Potremmo dover ammettere che qui abbiamo a che fare con una grave forma di frammentazione sull’orlo della schizofrenia collettiva. Mi spingerei al punto di sostenere che qui abbiamo a che fare con un inevitabile contrasto tra “Memoria” e “Nostalgia”.

La memoria si realizza come la capacità di immagazzinare, conservare e recuperare l’informazione. La memoria si riferisce al riconoscimento di un passato oggettivo e alla sua interpretazione effettiva. La nostalgia, d’altro canto, è il desiderio di tornare alla “terra natia”. Spesso si accompagna alla paura di non poterla più rivedere. In un certo senso, la nostalgia è il desiderio di un passato irrealizzato.

Il contrasto tra memoria e nostalgia è l’essenza della frammentaria realtà israeliana. Il Sabra è lacerato tra l’inclinazione a vedersi protagonista nella serie di “Sex and the city” tanto quanto la sua memoria lo riporta alla sua ultima visita a Londra, Parigi, New York e Tokyo. Dal punto di vista della nostalgia, egli è rimasto al Ghetto, circondato da “Muri di sicurezza” e immerso nella sua zuppa di pollo.

Il desiderio per il Ghetto potrebbe essere esplorato in ciò che gli israeliani considerano come “ricerca della pace”. Shalom viene spesso tradotto in “pace” ma non ha quasi niente da spartire con questo termine. Quando gli israeliani parlano di “shalom”, di “pace”, non fanno riferimento alla riconciliazione, all’armonia o alla trasformazione della loro società in una comunità ecumenica fondata su valori universali. Quando gli israeliani vanno in cerca di “pace”, loro intendono “sicurezza”. Ecco perché gli israeliani e i loro sostenitori occidentali interpretano il “ritiro unilaterale” come una mossa di “ricerca della pace”. Mentre pace significa ricerca genuina dell’amore, dell’armonia e della fratellanza, “shalom” significa piuttosto il contrario: separazione e segregazione. Mentre pace significa uscire dal proprio guscio e aprire il proprio cuore al prossimo, “shalom” implica la costruzione di una “barriera di sicurezza” e l’affioramento di un profondo e collettivo disprezzo per il resto dell’universo.

Tuttavia, questa bizzarra interpretazione ebraica della nozione di pace è ben lungi dall’essere un’invenzione israeliana. Come ho già detto prima, “Shalom” esprime il nostalgico anelito per il Ghetto europeo.

Già nel 1897, nel suo famoso discorso al Primo Congresso Sionista, Max Nordau espresse un concreto ed esplicito desiderio per il “Ghetto ormai perduto”:

“Il Ghetto…per gli ebrei del passato non era una prigione bensì un rifugio…Nel Ghetto, l’ebreo aveva il proprio mondo; per lui era un rifugio sicuro e per lui rappresentava valori spirituali e morali quanto la casa dei propri parenti. Qui si trovavano i membri dai quali desiderava essere giudicato e dai quali poteva effettivamente essere giudicato; c’era l’opinione pubblica, essere ammessi dalla quale rappresentava il massimo dell’aspirazione dell’ebreo……Qui tutte le specifiche qualità ebraiche venivano tenute in gran conto, e attraverso il loro speciale sviluppo si sarebbe ottenuta quell’ammirazione che è lo stimolo più spiccato della mente umana…….L’opinione del mondo esterno non contava nulla, in quanto opinione di nemici ignoranti. Si cercava di compiacere i propri correligionari e il loro applauso era la degna gratificazione della propria vita. Anche gli ebrei del Ghetto vivevano nel rispetto morale, una concreta vita appagante. La loro condizione esteriore era incerta, spesso gravemente a repentaglio. Ma, interiormente, essi raggiunsero uno sviluppo integrale delle loro specifiche qualità.
Erano esseri umani in armonia che non avevano bisogno degli elementi di una vita sociale normale. Inoltre percepivano istintivamente tutta l’importanza del Ghetto per la loro vita interiore e perciò avevano un’unica preoccupazione: renderne sicura l’esistenza per mezzo di mura invisibili, più sottili e più alte dei muri di pietra dietro i quali erano visibilmente reclusi. Tutte le costruzioni e le abitudini ebraiche perseguivano inconsciamente un solo scopo: conservare l’ebraismo separandosi dagli altri e rendere ogni singolo ebreo costantemente consapevole del fatto che egli era perduto e sarebbe perito se avesse abbandonato la sua caratteristica specifica.”

Questo discorso datato esprime chiaramente l’attuale, recondito desiderio degli israeliani.

Per l’israeliano, vivere circondati da “muri di sicurezza” non significa vivere in “una prigione ma in un rifugio”……Il Sabra “ha il proprio mondo” in Israele, dove l’opinione del “mondo esterno” non conta niente, poiché è “l’opinione di nemici ignoranti”. Nordau qui esprime quello stesso spirito che indusse Ben-Gurion, cinquant’anni dopo, a dire che “non importa ciò che i Gentili dicono ma ciò che gli ebrei fanno.”

Nel suo discorso, Nordau parla del valore spirituale del Ghetto, che fa sentire l’ebreo “al sicuro per mezzo di mura invisibili che erano molto più sottili e alte dei muri di pietra dietro i quali erano visibilmente reclusi.” Posso suggerire qui che è questa stessa intuizione che spiega le stupefacenti misure fisiche del muro israeliano dell’apartheid?
Tuttavia, mentre Nordau si riferisce a muri “invisibili”, il “muro di sicurezza israeliano” è piuttosto visibile ed è fatto di cemento armato grigio.

Per quanto l’israeliano desideri celebrare la sua immaginaria realtà liberal-cosmopolita, per quanto, rievocando la sua corta memoria, voglia provare i piaceri del sesso in una grande città, il desiderio nostalgico lo riporta indietro con la mente ad una scodella di “zuppa di pollo” fumante, in uno Shtetl molto piccolo. Egli desidera una vita ebraica “sicura” ed è questa brama che trasforma lo “Stato per soli ebrei” in un Ghetto incendiario. Ciononostante, diversamente dal vecchio Ghetto europeo, in cui gli ebrei apparivano piuttosto timidi, il nostro contemporaneo Shtetl israeliano è una bellicosa ed espansionista superpotenza nucleare.

Potremmo anche dover ammettere che il Sabra non è riuscito a creare una realtà omogenea nella quale un nuovo essere umano civilizzato rivendica il suo posto nell’umanità fondata su armonia e pace. Per quanto il Sionismo servì a forgiare un nuovo autentico ebreo, esso portò alla nascita di una comune di esseri umani tormentati e divisi dalla inevitabile collisione tra la memoria cosmopolita a breve termine e la nostalgia tribale di un clan.

Lo Tzabar e il Sabbar (il Sabra e il Fico d’india)

Un amico ritornato dalla Palestina alcune settimane fa è stato tanto gentile da condividere con me le sue impressioni. Nel suo viaggio da Gerusalemme a Ramallah, ha notato che gli israeliani si hanno fatto discreti sforzi per dare alla parte israeliana del muro un aspetto “architettonico”. Qua e là il muro era in gran parte piastrellato con pietra di Gerusalemme e ornato di fiori, in altri punti degli artisti avevano creato alcune immagini pastorali di paesaggi, laghi e olivi. Gli israeliani hanno addirittura alzato il terreno vicino al muro, dalla loro parte, tanto per renderlo più ridimensionato e dall’aspetto più amichevole. Tuttavia, una volta attraversato il check-point in direzione del versante palestinese, il mio amico non ha potuto ignorare le reali e sconvolgenti dimensioni del muro. Ha visto un gigantesco muro di cemento armato alto tra gli otto e i dieci metri che ormai invade l’orizzonte di ciò che è rimasto della Palestina.

Ci ho riflettuto per un po’. Sostanzialmente ho ripensato alla nozione di Nordau sul Ghetto e al suo dualismo tra “prigione” e “rifugio”. E sono arrivato alla conclusione che, per quanto gli israeliani siano inclini a rinchiudere i palestinesi dietro delle mura, il muro israeliano dell’apartheid peraltro non è che una prigionia che lo stato ebraico si è auto-inflitto. All’interno del discorso Sio-centrico stabilito da Nordau: prigione uguale rifugio.

Di conseguenza, il Sabra non è che una tragedia. Egli era destinato al fallimento. Il Sabra serviva per erigere il nuovo Ghetto ebraico, per rimediare al trauma dell’abbandono del Ghetto ebraico che fosse il risultato dell’Illuminismo europeo e della tendenza verso l’emancipazione degli ebrei. Il Sabra fu concepito per diventare un “nuovo essere umano civilizzato”. Missione veramente impossibile, mirata contemporaneamente a due scopi opposti: universalismo e tribalismo irriducibile. A quanto pare, i semi dell’apartheid israeliano e delle fondamenta del “muro di sicurezza” erano già stati gettati durante il Primo Congresso Sionista.

Comunque sia, per quanto il Sabra si riveli come aggressore e tragica entità storica auto-inflitta, è piuttosto evidente che non molti riescano a comprendere pienamente la profondità concettuale e ideologica che si cela dietro quel termine profondamente intenso, cioè Sabra. La parola ebraica Tzabar deriva dall’ArabicoSabbar, che è il nome del cactus di fico d’india (prickly pear), così diffuso in tutta la Palestina. E’ un’allusione alla tenace, spinosa pianta desertica dalla scorza sottile che cela una succosa parte interna più delicata, dolce e gustosa. Gli ebrei nati in Israele che si definiscono Sabra insistono nel considerarsi “ruvidi all’esterno ma dolci e sensibili all’interno”.

La Memoria della terra

Questa stessa immagine dell’ebreo nato in Israele quale dualismo tra “ruvidità” e “dolcezza” si riflette ormai nella topografia della regione. I muri con filo spinato che frammentano la Palestina in tanti piccoli Bantustan servono per difendere la succosa e dolce immagine della “cosmopolita” Tel Aviv. Purtroppo, il panorama della Palestina ridotta in brandelli è ormai un riflesso dell’immagine che il Sabra ha di sé e un’estensione della sua identità. L’aggressione israeliana verso i suoi vicini, unita all’auto-proclamata rettitudine, non è nient’altro che un riflesso della fantasticheria del “ruvido e dolce”.

A quanto pare, gli Israeliani insistono nel considerarsi “dolci e succosi”. Dopotutto, l’amore per sé stessi si è fatto strada tra i luoghi comuni ebraici già da un po’ (in opposizione all’odio del sé, una qualità che viene attribuita soltanto a capricciosi umanisti e pensatori ebrei). Tuttavia, al di fuori di Israele, sono in diversi a nutrire seri dubbi circa la dolcezza e la succolenza dell’israeliano e del Sabra. Si è appreso da poco che ministri e ufficiali dell’esercito israeliani sono stati ufficialmente sconsigliati di recarsi in viaggi all’estero proprio per evitare l’arresto per crimini commessi contro l’umanità.

Comunque, c’è qualcosa di cui persino la maggioranza dei Sabra è all’oscuro. Si tratta del simbolismo di quel cactus da cui loro prendono allegramente il nome. Questo stesso cactus di fico d’india in realtà rappresenta il furto israeliano della terra di Palestina.

Il cactus di fico d’India in realtà è uno degli ultimi residui rimasti dell’antica Palestina. Cresce in prossimità di aree di insediamento umano, si nutre di scarti umani. Il cactus era parte integrante del panorama rustico dei villaggi palestinesi, parte integrante del ciclo vitale palestinese. Sebbene Israele sia riuscito a cancellare le tracce del complesso dei villaggi e della vita rurale palestinesi antecedenti il 1948, i cactus rispuntarono subito dopo. Ogni volta che adocchiate un cactus in questa terra, siete più che autorizzati a supporre che lì si trovava una casa, una fattoria o un villaggio palestinese che poi è stato distrutto. I cactus sono veramente spinosi. Tuttavia, i loro aculei indicano i Sabra che hanno colonizzato la terra e ne hanno cancellato la sua storia in nome di quella ebraica.

Per la Palestina (la terra) e i palestinesi (il popolo), i cactus sono ben lungi dal rappresentare la nostalgia, sono soggetti a memoria breve e ad un presente animato. Si trovano in una terra rubata, desiderosi di un fellah palestinese(Palestinian Falahs), che li ha nutriti lungo tutta la storia. Sono in quella terra per conservare la storia dei villaggi palestinesi. Cactus pieni di frutti, in attesa che bimbi palestinesi giungano a coglierne i fichi.

Per quanto il Sabra si spacci per “ruvido e dolce”, il cactus sta lì a descrivere come stanno effettivamente le cose: La Palestina è un pezzo di terra, Israele e il Sabra sono solo un altro fugace momento della fantomatica fase epica ebraica. Questo stadio sta ormai entrando nella sua fase finale e giungerà presto alla fine.
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Originale da: PeacePalestine

Articolo originale pubblicato il 2 gennaio 2008

L’autore

gilad atzmon

gilad atzmon

Diego Traversa è membro di Tlaxcala, la rete di traduttori per la diversità linguística. Questo articolo è liberamente riproducibile, a condizione di rispettarne l’integrità e di menzionarne autori, traduttori, revisori e la fonte. Juan Kalvellido è membro di Cubadebate, Rebelión e Tlaxcala. Il suo website è http://www.kalvellido.net.

URL di questo articolo su Tlaxcala: http://www.tlaxcala.es/pp.asp?reference=4429&lg

e disse…erri de luca

ERRI DE LUCA

E DISSE

Feltrinelli 2011

Lassù si avvolgeva di vento. Una sommità senza urto di masse d’aria addosso è spaventosa. Poiché l’immenso sta trattenendo il fiato.

 

S’intendeva di vento: se si stava stropicciando contro il suolo per caricare la miccia del fulmine, se veniva dal su d secco e assetato a pizzicare il naso e dare frenesia ai profeti. Sapeva il vento di est che porta la cenere e la polvere degli antenati. Allora al tornio del vasaio insieme all’argilla si mescola l’ultima consistenza delle vite accadute. Sapeva il vento dell’ovest che raccoglie acqua salata e la trasforma in dolce prima di rovesciarla nelle cisterne e i pozzi.

 

…Tra le cime frantumate dai fulmini era lieto di offrire le sue gocce sudate al vento che le aggiungeva al resto delle materie prime.

 

…Aveva dentro gli occhi il callo dell’insonnia.

…In lui si concentrava l’energia dell’ultimo, un riassunto di esistenze perdute. Andava solo, qualunque altro accanto gli avrebbe sparigliato la solitudine.

…E com’era la terra da lassù? Era un palmo di mano spalancata. Dava poca soddisfazione a chi chiedeva.

…Una donna riproduce il mondo con il grembo, a un uomo resta e spetta di ricordare. E’ questo il suo contributo alle generazioni.

…I ricordi appartengono al regno degli uccelli, quando vanno lasciano una piuma. Da quella si sa di che specie sono.

…Non è bene per un uomo essere per se stesso perchè fa un atto di comparazione con la divinità, che sta da sola(…) nelle solitudini si fanno e si disfano mondi.E’ la nostra novità, noi siamo i raggiunti dalla rivelazione che esiste una divinità soltanto. Tutti gli altri sono idoli scaduti. Noi ripetiamo che il nostro Adonài è Uno, ma pure che è solo. (…)E’ una, ma la sua unità non serve per contare, è un numero inservibile, niente da aggiungere o da togliere. Dire che è una non è atto di fede, ma di condivisione della sua solitudine. Va detto con affetto e con sostegno.

“Allora un uomo che esiste per sé stesso si compara alla divinità”.

Voleva il vuoto intorno intorno e sotto i piedi per abitare il deserto della divinità?

 

Tutto cadde di mano tranne i bambini dal braccio delle madri…

…Il silenzio seguente fu quello del latte che caglia…in un palmo di mano passato sugli occhi, esiste un silenzio di condensa. Respiravano solo dal naso per non fare rumore in se stessi.

 

Le donne si scambiavano occhiate, si davano di gomito: il tu che si stampava sulla roccia era al maschile. L’ebraico separa i sessi pure dentro i verbi e i terminali dei pronomi. Il tu sopra la roccia era al maschile. Spettava perciò agli uomini trasmettere le clausole e le righe di alleanza con la divinità. Per loro, per le donne, un’incombenza in meno, si scambiavano sguardi per intesa.

Toccava agli uomini. Del resto, nella loro lingua maschio e ricordo hanno radice uguale: Si dessero perciò da fare loro con la scrittura sacra e con la trasmissione. Le donne ebree erano ben cariche di compiti. Gli uomini non erano più servi d’Egitto, avevano un sacco di tempo libero. Per le donne invece  era cambiato poco l’orario di lavoro per le faccende nuove di una carovana. Si reggevano il velo sulla testa con la mano. Quando guardi per aria, reggiti il cappello: era un modo per dire che pure nei momenti più solenni, tieni i piedi piantati sulla terra.Sara, moglie di Abrano, aveva riso all’annuncio di una sua gravidanza, lei vecchia e senza ciclo di fertilità. Le donne sotto il Sinai sorrisero alla divinità che sobbarcava gli uomini. “Almeno servono a qualcosa” disse un’anziana, facendo ridere le giovani spose.

…il noi  in ebraico  non distingue i sessi.

…le donne sapevano di essere le beniamine della divinità. Nascevano perfette, i meschi invece dovevano essere ritoccati con la circoncisione.

Esiste in natura, oltre all’attrazione terrestre, un’attrazione opposta, da chiamare celeste.

Non sono provvedimenti disciplinari( …)E’ un torto l’ignoranza. E che non siano punitive le frasi della divinità si trova scritto subito £ E fece Elohim per Adàm e per la sua donna tuniche di pelle e li coprì”. Il gesto più affettuoso e premuroso, il principio di corredo.

I despoti commettono i loro crimini non per volontà di potenza ma per terrore. Scacciano gli incubi ordinando stragi. Così Faraone ricorrerà all’annegamento dei neonati maschi degli ebrei, riducendo il Nilo da sorgente di vita a macchina di morte. Chi guasta l’acqua ne sarà guastato.

“Dalla roccia di miele ti ho saziato” ( Salmo 81,17). Lo gustavano sotto il palato ma entrava dalle orecchie. Il tu di quelle frasi gonfiava il sangue in cuore. La montagna a srapiombo davanti, il deserto alle spalle e l’aria asciutta: esistono ore perfette.

Gli idoli del mondo scadevano tutti in una volta…Invece dalle parole della divinità si sprigionava una valanga d’intensità fisica.

…la testa nella spalla dell’altro nell’incavo accogliente tra la scapola e il collo. Scoprivano l’incastro che permette a due corpi di fare l’unità.

Ricorda il giorno di sabato. Iniziato la sera del sesto, prolungato nell’insonnia amorosa, nel breve sonno sazio, nel risveglio a giorno canterino. Quello è shabbàt, di quello avrai ricordo…Ricorda la felicità del mattino seguente, la luce sulle palpebre, il risveglio. Era il giorno perfetto, il punto fermo messo a firma del capolavoro. Shabbàt, la cessazione, un suono secco di frutto caduto, il palmo di una mano che si chiude nel palmo dell’altra.

“Non farai per te alcuna opera”: questo ti servirà a ricordare il primo shabbàt del mondo, il corpo t’insegnerà, smettendo. Non è il contrario di fare, è l’esecuzione di un ricordo, di quando senza annuncio né segno si fermò la creazione del cielo e della terra. Non che fosse finita l’opera: il rinnovo continua.

 

…cercavano con gli occhi il posto in cui stava il musicista.

 

Non ammazzerai: che disarmo in cuore si annunciava in quel rigo di apertura di seconda facciata della roccia, in alto, a sinistra della prima. Rinuncia a disporre della vita altrui. Diceva di non ammazzare neanche Caino, primo degli assassini, per non degradare se stessi e le comunità.

“Non sarai adultero”: questo non è difficile mentre ci si sposta sul palmo del deserto.

“Non sarai adultero” perché sarà lo stesso che versare sangue. Perfinoo un re devoto e valoroso, Davide, cadrà nel torto. Per sviscerato amore di Bat Sheva farà ammazzare suo marito Uria, soldato delle sue battaglie. L’adulterio implica il sangue, nel fumo del Sinai scalpellato scorgi ventate della tua storia a venire. Ogni rigo battuto qui provvede a darti avviso e conoscenza. Rispetterai l’amore degli sposi, il loro giuramento. Tra loro è dichiarato un patto in cui non hai diritto di parola. Non importa cosa lo mantenga, se interesse, abitudine, paura: tu non profanerai l’unione stabilita. Esiste la regola che separa, esiste la dissoluzione per la legge. Prima di quello scioglimento non ti intrometterai nel vincolo di nozze. Rispetterai la parola pronunciata da loro, non la diminuirai togliendole valore.

 

L’assemblea del Sinai sudava di futuro. Insieme a loro cantavano a labbra chiuse le assemblee a venire.

“Non ruberai” No, però potrai entrare nel campo del tuo vicino e mangiare del frutto del suo seminato.

E ancora: quando i mietitori saranno passati con la falce, non potranno passare una seconda volta a completare. Quello che resta spetta al diritto di racimolare.

E se lavorerai a salario, il prezzo della tua fatica ti verrà pagato il giorno stesso.

Chi trattiene presso di sé il compenso dovuto all’operaio che ha svolto la sua opera , è pari a un ladro, ma con l’aggravio di opprimere un povero..

Se la persona umana è abbassata a merce, a refurtiva, chi la riduce a questo è ladro.

Questa legge difficile proviene dall’amore, che è intransigente con chi opprime  gli amati. L’amore esige la giustizia in terra, infiamma gli umiliati. L’amore arma la mano dell’oppresso.(…) Non gli affamati insorgono, ma i calpestati in cuore. Non ruberai la loro porzione di uguaglianza.

 

…nel corpo si piantava il vento di una voce da ascoltare.

 

“Non risponderai nel tuo compagno da testimone di inganno” Chi è tenuto a rispondere di un suo compagno si trova come Caino di fronte alla domanda “Dov’è tuo fratello?” La tua testimonianza dità dove si trova, nel torto o nel giusto, tra i vivi o tra i morti, dentro la comunità o escluso.

Lì erano tutti testimoni della divinità. Di fronte a lei ognuno rispondeva del suo vicino. Si scambiarono sguardi intimoriti. Il rigo stabiliva la responsabilità di uno nei confronti degli altri.

Non devi desiderare, perciò governa il tuo appetito.

Qui nel fondo delle dieci righe si decide la differenza tra te e i tuoi persecutori. Tu non desidererai niente dell’altrui. Qui si fonda la tua interiorità. Terrai a freno col morso il desideri, ne sarai il signore, e lui solo un blando richiamo a procurarti i beni terreni interamente tuoi.

Il verbo “hamad” è desiderio di possesso altrui. Comporta il veleno dell’invidia, che vuole usurpare il posto di un altro.

Resta nel tuo, ammira senza voler togliere. L’ammirazione è un sentimento lieto che si rallegra di un bene posseduto da altri, fa bene al sangue e al sorriso, è un fischio di congratulazione, un applauso degli occhi. Non ti è chiesto di togliere lo sguardo, non devi censurarti una bellezza. Resta nel tuo punto di ammirazione, senza spinta a voler subentrare  nel possesso. Ciò che tuo, anche se poco, è la tua primizia.

La divinità frugava nel sentimento che nasce dalle disparità.

Non sarai una ferita sul volto del creato e i tuoi non diranno di te “meshumed”, il distrutto.

Dev’essere a corto di popoli la divinità per bussare alle orecchie dei nostri maschi. Di più cocciuti non ne esistono.

Perché non undici o nove? Perché dieci sono le dita per contarle, dieci parole, ogni dito un anello di catena da tenere a mente. Le mani stanno innanzi all’uomo, gli reggono il lavoro, il verbo fare. E le parole fanno l’uomo, gli stanno davanti, lo guidano oppure lo smarriscono.

“ Argilla siamo tutti noi e tu il nostro vasaio, opera di tua mano tutti noi” Manifattura della divinità, suo marchio e callo di fabbrica: a questo si aggiungevano le dieci volte a capo, da ricopiare a mano finchè cammina il mondo.

 

…la luce del tramonto scalpellava le rughe nella roccia.

…nel deserto a un uomo servono più nomi, più versioni della sua identità.

Il suono della voce aveva procurato beneficio ai corpi. (…)I bambini impararono a leggere al volo e tutti insieme, guardando i caratteri impressi nella voce. Chi aveva un dubbio lo dimenticò, così pure chi attorcigliava il nervo di un rancore. Lo stranieroche si era aggiunto al viaggio fu conteso da molti inviti. Le partorienti ebbero un travaglio svelto, la terra sotto i piedi  non solevò polvere. Nessuna bestia zoppicò. Cominciava una notte senza luna, le stelle ardevano a fiaccolata in una processione. Gli uomini si accostarono alle donne per sigillo di un giorno prodigioso e per urgenza di una generazione  nuova che premeva. “E amerai”questa era giusta e ultima consegna. Le riassumeva tutte.

 

…mi aggiunsi ad un popolo che usciva a braccio alzato e con il canto in gola. (…)L’ebraismo per me non è richiesta di iscrizione, mi tengo l’imperfetto del prepuzio. L’ebraismo è compagnia di viaggio.

Nel 1900 ebrei e meridionali sono saliti sulle stesse navi, anzi scesi, dentro le stive della terza classe sotto la linea di galleggiamento. Noi di Sud lasciavamo la miseria, loro le case  in fiamme dei pogrom. Noi ci staccavamo da una patria amara, loro andavano da un esilio a un altro. Si andava insieme, ai quattro angoli del vento.

 

Dell’ebraismo condivido il viaggio, non l’arrivo. Non in terra promessa, la mia residenza è in margine all’accampamento. Non mi accosto all’altare, alle preghiere. La porzione di manna è garantita da letture in ebraico, aperte innanzi giorno. Condivido l’alba con chi sta zitto e ascolta. A sera la mia tenda è appena fuori dal recinto, il fuoco è acceso con lo stesso sterco di bestiame , ascolto loro vivere in attesa. Non ne ho. Smetterò prima di una terra promessa. Bello però il verbo che va insieme alla promessa, mantenere, che è un tenere per mano. Le mie sono occupate da quaderno e penna.

 

M’invitano alle tende, per l’uguaglianza dovuta allo straniero. Mi invitano fra loro fino a dovere dire molti no. Scegliessi un dove e un come di nascita ribadirei gli stessi: al Sinai da straniero. Non devo appartenere, sto con i tredicesimi, estranei alla dozzina convocata. Mio titolo di viaggio è seguire in disparte.

 

Rimango volentieri nel deserto, il posto più capace di ricoprire un corpo con il vento.

 

 

Erri de luca

E disse

Feltrinelli  2011

 

 

 

 

 

compleanno

era il mio compleanno ieri

non ho aspettato una tua telefonata

sapevo già che non ci sarebbe stato neanche un messaggio di auguri

come so

che anche tu sai che non mi aspettavo che mi chiamassi. 

il che vuol dire che ti ho pensato.

il che vuol dire che mi hai pensato.

E’ quanto basta.

precariamente rosso

Non ho mente.

lo vedo nelle piccole cose, nei dettagli, devo pensarci su e comunque dimentico, tralascio, trascuro, devo tornare indietro, ripercorrere i passi. faccio fatica a ricordare. Inutile, non ho mente.
E sai perchè?
Perchè sono preoccupata. Preoccupata, lo dice la parola stessa: vuol dire che prima di fare qualcosa, qualsiasi cosa, la mente è già occupata, ingombra, impegnata, è come quando hai bisogno urgente della toiletta ma c’è fuori il dischetto rosso…

Disco Rosso, dunque e ci credo…

Mio marito è in causa col fratello per lo scioglimento di una comunione erediatria che sono sette anni che non si riesce a sciogliere, nodo inestricabile. Mi ricorda la foresta che cingeva il castello della bella addormentata: rovi, spine e il principe, poveraccio solo una spada e quella calzamaglia sottile a proteggerlo.
Io. I miei vicini mi hanno fatto causa, l’hanno vinta e io non ne sapevo niente. Nove anni di causa perchè secondo loro gli aghi del mio pino hanno causato loro danni per 4.ooo euro, e io non ne ho saputo nulla. Come è potuto succedere? Ai piani alti danno per scontato che se loro spediscono la raccomandata per notificarti che il vicino è incazzato,  tu la ricevi e se non la ricevi e non ne sai nulla non sono fatti loro. La favola? Sei scemo? E’ un incubo…
Poi oggi ho madato l’ennesimo curriculum.
Nella lettera di presentazione ho scritto: potrei dirmi soddisfatta del mio attuale lavoro..
Soddisfatta del mio attuale lavoro. Mai nella mia vita ho sentito stronzata più grande ( da me, s’intende).
Sono soddisfatta del mio attuale lavoro quanto lo si può essere di stare attaccati ad un boccaglio dell’ossigeno. Il curriculum mi piace, si capisce, ho scopiazzato qua e là da internet ed è venuto veramente mirabile. Ma dire sono soddisfatta è stato proprio il massimo: vivo con l’incertezza consapevole, e con la certezza che domattina potrei essere buttata fuori, senza lavoro e senza una lira…pardon, un euro.

Sono una  precaria.

Siamo tutti precari, a questo mondo qualcuno può dire. Sì ma gli statali lo sono un po’ meno.
Siamo tutti precari ma quando ti alzi la notte per andare a controllare il tuo conto corrente, lo sei un po’ di più.
Faccio gli scongiuri perchè il mio patron stia bene, perchè non gli accada nulla, nessun incidente, neanche una lussazione alla caviglia, niente che lo costringa non dico a chiudere bottega ma neanche a sospendere l’attività per una prognosi di venti giorni. Faccio i riti vudu perchè gli affari gli vadano bene, anzi meglio: almeno fino a quando non trovo un altro lavoro. E intanto mando curricula a destra e a manca, come un toro accecato dal rosso.

Il rosso che ho in testa e che mi fa scordare le chiavi, il cellulare, gli occhiali, la fabbrica di dolci, il gas aperto, il forno acceso. Il rosso del conto corrente. Il rosso dell’angoscia per domani, che non si sa se pioverà e ci sarà riparo per la pioggia.

 

 

gli enti inutili

I miracoli dimostrano con sufficiente evidenza

che i preti non sono affatto necessari.

ovvero:nel miracolo è la dimostrazione tangibile  che Dio non ha bisogno di intermediari privilegiati quando vuole comunicare con qualcuno o quando qualcuno vuole mettersi in comunicazione con lui.

Se la chiesa cattolica fosse un ente statale, lo Stato, di sicuro non ci avrebbe pensato due volte a iscriverlo tra gli Enti Inutili e aggiungerlo ad un capitolato di spesa sospesa.

Ma la Chiesa cattolica, romana, apostolica è uno Stato a sè stante, con un sovrano: sovrano nel suo territorio, lo Stato Pontificio, e imperante sulle le anime che anelano se non al paradiso, almeno al purgatorio.

Come tutti gli Stati che si rispettino ha un’amministrazione. E dei dipendenti. Più o meno bravi, più o meno attaccati al senso del dovere, spesso assolvono al loro dovere con inaspettate capacità imprenditoriali, salvo rare eccezioni, dimenticano spesso chi è il loro principale.

E il loro principale( nella sua lungimiranza e infinita bontà)…. spesso

 ne fa a meno. 

 

 

lunedì

Oggi. Lunedì.

Svegliata 7,45. Mandata Gaia a scuola, fatto caffè. Termometro a Raffaele: 37 e 6, rincuorata. Tornata a letto, brividi. Ho dormito, ho sognato: “il pecoraio”, sapevo che era” il pecoraio”, ma aveva altri occhi, uno sguardo più mite e mi ha sfiorato la mano, in un gesto che voleva trattenermi mentre io, al contrario, scivolavo via. Poi tante scale, uno studio d’avvocato, deserto e in penombra, garfield_monday1dovevo andare ma poi restavo, l’avvocato sembrava uno che conoscevo, le scale erano sospese nel vuoto, non sapevo se restare o andare, il “pecoraio” finalmente era conciliante, sembrava che stavolta avesse davvero voglia di risolvere la faccenda, di smettere di giocare…poi mi sono svegliata ed erano le 10 e 30.

Un altro caffè, due o tre sigarette, il pacchetto vuoto, vitamina C per Raffaele, piove, mi lavo, mi vesto decido di non truccarmi, il tempo è cupo ma ancora non piove: vado al mercato a cambiare la misura di un pigiama per mia madre, vado all’eurospin a comprare la lettiera al gatto.

Il gatto ha la diarrea e la stomatite, pulisco tutto e lo faccio mangiare. I gatti fuori in giardino mi hanno rovinato la begonia che l’anno scorso mi avevano dato in omaggio il giorno della festa della mamma al sisa: raccolgo i pezzi, rinvaso e annaffio.

Faccio mangiare i ragazzi: Raffaele ha di nuovo la febbre alta, Gaia il dolore di testa, è festa, Vivin C per tutti e flaconcini di vitalmix a gogo. Sono preoccupata per la tosse di raffaele, areosol in dosi industriali. Stendo le lenzuola, nel frattempo, metto i piatti in lavastoviglie e porto fuori il cane. Dimenticavo: chiamo nonna, la rumena che l’assiste ha dato forfait. Lo comunico a mia madre, che parla con la zia. Senza risolvere niente. Vabbè, poi ci passo io da Mirella… no, sa…  aveva solo fatto male i conti, non ce la fa a sostenere i ritmi della centenaria, anche lei ha una famiglia. Se me lo dicevi prima. Vado in Conad, spesa, di nuovo a dar da mangiare al gatto: che faccio lavoro un po?

Scherzo, sono già le 19  e 30 e devo ancora passare dalla farmacia.

Vabbè, domani….

novità sull’inferno

Non ho idea se i cattivi vanno davvero all’inferno.

Quello che è certo è che esistono persone capaci di rendere la vita degli altri un inferno.Ombre

colmare gli spazi vuoti

foto di claudio piccini

foto di claudio piccini

se dio è in cielo in terra e in ogni luogo…
perchè cercarlo sempre in cima alla montagna?

 
 
Perchè sei sicuro che Dio stia in cima alla montagna e lì lo vai a cercare? Si va in volo per sentire la brezza in faccia e cercare la libertà. Si va nel profondo delle spelonche per amore del rischio, del mistero e delle tracce del passato. Si va per abissi marini per restare affascinati dalle bellezze della natura. Ma, in alta montagna, perchè si va a cercare Dio? Non è che abbiamo sempre bisogno di colmare gli spazi vuoti?

  • vademecum

    …nel deserto a un uomo servono più nomi, più versioni della sua identità. erri de luca e disse
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